Il complesso “Villa Donini”, sito a Longara, frazione di Calderara di Reno, è delimitato a sud-ovest dalle vie Guardatello e Rosa e a nord da via Valli, che porta a Sala Bolognese. Esso si compone di un parco, di circa 1 ettaro di superficie, progettato nel 1872 dal Conte di Sambuy, famoso paesaggista piemontese, autore dei Giardini Margherita a Bologna, al cui interno si trovano la Villa (ultimata nel 1879), la Cappella-Oratorio, la Scuderia e la Serra.
L’altare si presentava in cattivo stato di conservazione per il distacco di alcune delle lastre marmoree che lo rivestivano. Fortunatamente le lastre mancanti furono in parte recuperate dalla proprietà che conservava anche il bozzetto originale. L’intervento di restauro ha previsto: la rimozione dei depositi di malta superificiale per l’alloggiamento delle lastre marmoree, il preconsolidamento degli elementi in essere, la preparazione della superficie, il censimento degli elementi recuperati e l’individuazione della loro originaria posizione, la pulitura superficiale con solventi idonei da testare in loco, la preparazione di uno strato di malta di allettamento eseguita con grassello di calce e inerti vari simili per cromia e composizione alle malte orginali, la ricollocazione degli elementi lapidei mancanti.
Il progetto si pose di migliorare la leggibilità dell’antico interno cinquecentesco pensato da Peruzzi. L’occasione fu offerta dalla precarietà statica di una porzione del muro di fondo della cappelletta Ceslao, che risultò essere realizzato a sacco e non immorsato alla controfacciata verso piazza S. Domenico e dunque pericolosamente instabile. Con la sua demolizione si è liberato il terzo angolo della cappella facilitando la ricostruzione dell’originario impianto. Gli intonaci paretali sono stati ricostruiti solo nello strato superiore di finitura, dopo essere stati raschiati con spatole, levigati con carta vetrata, spolverati e fissati. Mentre i risalti plastici scolpiti nell’arenaria da Alfonso Lombardi, nonché l’altare tardo cinquecentesco di Pietro Fiorini, sono stati descialbati e consolidati superficialmente. Una metodologia, a mezzo di micro e macro-sabbiature con diversi ugelli e inerti, è stata adottata per i capitelli corinzi e per i capitelli compositi sulle colonne libere.
Il recupero del fregio dipinto ha necessitato una lavorazione assai onerosa, poiché lo scialbo a calce che lo ricopriva era intimamente connesso ad esso. La pittura del fregio non era stata realizzata a fresco, ma con una tecnica assai diffusa che impiegava pigmenti naturali stemperati nella calce e stesi a secco. Con il tempo i pigmenti avevano perso l’adesione con il loro legante per cui parte della pittura venne inglobata dallo scialbo stesovi sopra. Per la rimozione dello scialbo si è dovuto scegliere il metodo meno invasivo, vale a dire quello meccanico, senza prefissaggio, né strappo. Al fine di preservare i pigmenti dall’attacco biologico e biodeteriogeno si è in seguito provveduto al fissaggio del fregio tramite una resina acrilica, stesa con una velina (carta giapponese) interposta per proteggere al massimo la campitura. Fissate anche le poche parti in pastiglia sopravvissute, è stata operata una reintegrazione pittorica ad acquerello intervenendo solo sullo sfondo azzurro della decorazione.
Il monumento sepolcrale si presentava coperto da diversi strati, che la normale indagine stratigrafica non consentiva d’individuare e distinguere con precisione nella loro successione. Abbiamo pertanto prelevato alcuni campioni per sottoporli all’osservazione microscopica. Essa ha rivelato per il gruppo con il Padre Eterno e per il Cristo in piedi una finitura bianca (a calce) dello stucco a base di gesso, per i busti di Bartolomeo e Ludovico Ghisilardi e le targhe, una campitura rossa sopra lo stucco. L’ipotesi che il monumento sepolcrale possa essere stato realizzato in due tempi potrebbe trovare un’ulteriore elemento di conferma. Non solo il Dio Padre in gloria ma pure il Cristo benedicente potrebbe venire assegnato al Lombardi, lasciando al Fiorini “figure grande et mascare tavoloze et scartozamenti et altre bizarie” con tutta l’approssimazione con cui sono restituiti: i busti di Bartolomeo e Ludovico sembrano prodotti in serie, tanto i caratteri fisiognomici sono sovrapponibili l’uno con l’altro.
Con la conclusione dei lavori di restauro, è stata ricollocata anche la pala d’altare realizzata da Lorenzo Sabatini per Antonio Ghisilardi nel 1572 che raffigura Cristo in gloria con i Santi Bartolomeo, Luigi di Francia e Antonio da Padova, che dal 1946 era esposta al museo diocesano.
L’esterno della cappella è stato sottoposto a un intervento di manutenzione, senza alcuna opera di ricostruzione, a esclusione della reintegrazione dei corsi di malta cementizia del basamento che sono stati scalpellati e ricostruiti con una malta a coccio-pesto. Le due facciate interessate, quella a ovest e a nord, sono state sabbiate, idrolavate e infine protette con una soluzione idrorepellente. Resti di sagramatura sono apparsi su entrambe le pareti senza distinzione fra le parti decorative e gli sfondati.